In questo periodo di grande incertezza, tutti noi proviamo delle forti emozioni, ma a volte non sappiamo come comunicarle. A volte la vergogna ci blocca. Altre volte nascondiamo a noi stessi di provare nuovi sentimenti. E pensiamo di essere gli unici spaesati o impauriti. Così, noi di Sguardi di Confine abbiamo pensato di lanciare un’iniziativa che possa dare a tutti la possibilità di condividere, distanti ma vicini, i propri pensieri più intimi. Con “Uno Scambio di Sguardi”, proponiamo a tutti i nostri lettori di scrivere una lettera a un “compagno di quarantena”. Sarà un modo, lento e meditato, attraverso il quale poter rielaborare le proprie emozioni, mettendole “nero su bianco”, per effettuare ciò che noi abbiamo affettuosamente chiamato, appunto, uno “scambio di sguardi”. Sguardi che però sono emozioni. Non solo quelle negative, panico, angoscia, ansia, paura, ma tutta la gamma è chiamata in causa. E i benefici in questo gesto terapeutico della scrittura sono tanti: sentirci vicini ora che siamo lontani; condividere con qualcuno, in uno spazio protetto, le emozioni che proviamo; identificarci con le paure altrui per sentirci meno soli; prendersi del tempo per metterle in forma scritta e “rallentare” il pensiero, rallentando così anche le emozioni; trovare qualcuno che ci ascolti e ci legga.
Dato che ormai la routine è interrotta, facciamo insieme qualcosa di straordinario. Diamoci una briciola di speranza e positività a vicenda.
Se vuoi partecipare, prima leggi le parole di qualcun altro, giusto perché il confronto con almeno un’altra persona ti permetterà di gestire meglio le tue emozioni. Se sei sopraffatto, sfogare solo negatività, per un’altra persona che legge può essere deleterio. Quindi misura, dosa, calibra le tue parole e fallo con l’affetto che riserveresti al tuo migliore amico. Ci vuole tatto per stabilire un contatto. Puoi scrivere ciò che vuoi, ma lo scopo è quello di prendere qualcosa di negativo e controbilanciarlo con qualcosa di positivo. Trova almeno una briciola di bellezza per ogni paura che hai, questo il consiglio che sentiamo di dare. Poi, scrivi ciò che vuoi e noi di Sguardi di Confine ti leggiamo volentieri, ti ascoltiamo e così come con le nostre interviste, diamo voce a te. Il motto di Sguardi di Confine è “dove il sentiero è tortuoso e la via non è ancora tracciata”. Il sentiero di questi giorni è in salita, non lo si può negare, ma insieme possiamo tracciare una via di parole per salutarci. Salutare veramente.
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7 Aprile 2020
Cara amica,
Ti scrivo immaginando la nostra possa essere una conversazione telefonica, una delle molteplici che abbiamo per anni condiviso.
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È un periodo surreale, mi chiedo spesso come avresti reagito tu che eri una donna testarda che non accettava imposizioni o restrizioni.
Ti immagino con la mascherina che ogni tanto scostavi dalla bocca per poter fumare.
Questo tempo ci sta cambiando perché stiamo combattendo una battaglia difficile, più grave di una guerra. Almeno in periodo bellico la gente si stringeva con spirito di solidarietà, oggi la mancanza di contatti fisici è la mancanza più dolorosa.
Non vivo con disagio questa quarantena, abbiamo la fortuna di stare nel nostro ambiente, nella propria dimora ogni angolo ci è familiare e si trova sempre il modo per sentirsi impegnati. Mi manca un abbraccio con le persone care, una stretta di mano, un sorriso, oggi nascosto da una mascherina.
Ti penso più che mai amica mia, quando vedo le immagini di persone in terapia intensiva, immancabilmente penso ai lunghi periodi in cui eri intubata e non potevo vederti. Mia amica del cuore, penso che da lassù ci guardi e pensi che, tutto sommato, ti è stata risparmiata una tragedia.
Fiorella
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5 Aprile 2020
Resaca, in spagnolo la chiamano resaca. Quella sensazione di spaesamento e giramento di testa che si prova il mattino seguente (o forse sarebbe meglio dire il pomeriggio seguente) a una grande sbornia.
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Eh sì, cari compagni di quarantena, per me l’arrivo della pandemia da Coronavirus è stata come una resaca. Certo, il giorno prima non mi ero divertita fino allo stremo delle forze, come ai magnifici tempi dell’Erasmus. Ma se pensiamo al “giorno prima” come un prima esteso, quello della vita nella comodità e lusso della società occidentale nella quale ho la fortuna di vivere… allora sì, il mio “giorno prima” al maremoto da Covid 19 è stato uno spasso.
E non è un caso che in queste prime righe del mio “Scambio di Sguardi” il mio pensiero sia andato all’Erasmus. Già. Forse perché in quella magnifica esperienza ci ho visto il simbolo del superamento dei confini, dell’unione oltre le differenze, del mondo cosmopolita che si ritrova dove vuole, come vuole. Della parola libertà concretizzata alla massima potenza. Un’esperienza da privilegiati, qualcuno potrà obiettare. Ma sì, ammettiamolo pure. Che colpa ne ho? Sono privilegiata, e questo lo so bene. E ringrazio ogni giorno la vita (e i miei genitori) per questo privilegio che sì, mi sono gustata fino in fondo.
E così come me lo sono gustata profondamente – con la stessa delizia con la quale si assapora un buon tiramisù – tanto profondamente restano dentro di me gli amici che hanno incrociato quel bel cammino di libertà, ormai 10 anni fa. Ana, Irene, Pietro, Cosimo, Xieshu, Karianne, Vici, Maria, Veronica, Yannik, Vincenzo, Yael, Raquel… come state? Questa quarantena forzata, questa chiusura dei confini non mi fa altro che pensare alla possibilità di viaggiare, spostarci, incontrarci. L’abbiamo data per scontata fino ad ora, eppure basta andare indietro di una ventina d’anni e certo non era ancora così immediato muoversi.
Penso al futuro, a ciò che verrà. Non ha molto senso, lo so. Nessuno attualmente può sapere quali saranno i cambiamenti futuri a seguito di questa emergenza. Non sono un futurologo e non sono nemmeno così tanto sveglia da permettere al mio intuito di prevedere scenari plausibili. Eppure sento che ciò che abbiamo vissuto è stato come una grandissima e fortunatissima boccata d’aria nel tempo e nello spazio. Una fortuita connessione di eventi che, credo, non torneranno con quelle stesse libertà del nostro 2010. Ma forse ora sono solo un po’ negativa. Forse, semplicemente, dovremo rispettare qualche nuova norma, qualche precauzione in più, qualche limitazione in più, ma potremo rivederci, potremo spostarci. E mia nipote, se vorrà, potrà vivere anche lei un’esperienza come l’Erasmus.
Ma questa Europa, questa Europa cosa sta combinando? Ho amato e amo la proposta etica di fondo dei padri fondatori. E oggi, che succede? Questa emergenza ha forse fatto emergere l’ipocrisia di fronte alla bella facciata? Non lo so, faccio fatica a comprende numeri, patti di stabilità, eurobond e tutte quelle paroline lì… so solo che amo le parole unione, superamento dei confini, confronto, diversità che si rispettano ma convivono insieme. Forse sono solo ingenua, chissà.
Però oggi, ecco, oggi è il mio compleanno e sono qui rinchiusa nella mia meravigliosa casa con la persona che amo e che ho la fortuna di avere al mio fianco. Oggi devo ridimensionare questa visione universale del mondo per rientrare in me stessa. Oggi sono avvolta dal mio nido che, in equilibrio tra fortuite condizioni e decisioni prese, mi sono permessa di avere. I pensieri vanno al futuro, all’incertezza del lavoro, dell’economia, dei cambiamenti. Ma cosa siamo, se non continuo divenire? Tutti noi oggi siamo posti di fronte a una grande sfida. E l’augurio che possiamo farci non è altro che il saperci adattare al nuovo, aguzzando il nostro ingegno, le nostre forze. Senza piangerci addosso ma rialzandoci e reinventandoci se necessario. Con tutta l’energia e l’entusiasmo possibile. Intanto esprimiamoci, apriamoci al mondo e confidiamo i nostri pensieri, non vergogniamoci delle nostre paure. Perché sono sane.
E così, avvolta tra queste confortanti pareti, non posso che sperare che questa pandemia accenda in tutti noi un lume positivo di cambiamento. Il lume per l’amore della natura, per la ricerca dell’essenziale contro lo spreco e il consumismo, per i viaggi più consapevoli e meno superficiali (che fatica ammetterlo ad alta voce!), per la ricerca delle relazioni contro l’apparenza dettata dall’opportunismo.
Non possiamo credere ingenuamente che questo “shock” sociale ci cambi di sicuro in meglio. Ma non possiamo neppure permetterci di lasciare le conseguenze al fato. Possiamo cambiare in meglio, se vogliamo.
Che il lume del buon cambiamento sia in tutti noi,
Valentina
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4 Aprile 2020
Ciao, come stai amica mia?
Ti ho pensata, non mi accadeva da un po’. Il lavoro e la frenesia quotidiana me lo hanno impedito. Fino all’arrivo di questo fatto nuovo, questo evento. Questo nemico comune che ha già combinato danni altrove e che mai avremmo pensato di ritrovare come nube scura sulle nostre teste.
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Questo qui… pretende di tenerci rinchiusi ognuno nella propria casa. Sembra, anzi, che più si stiamo fermi, tranquilli e rinchiusi, più velocemente potrebbe lasciare i nostri giorni facendo meno danni possibili. E allora, che ti piaccia o meno, che tu possa crederci o meno, se pure nel dubbio per un senso etico e perché è giusto rispettare l’altro, finirai col farlo. Seguirai le regole.
Oggi preparo la focaccia di San Giuseppe. Nella mia terra si chiama “Ruccl”, è fatto con le giovani cipolle di primavera, uva sultanina, alici e olive. Ho già pulito le cipolle e, mentre le pulivo, ho appunto pensato a te. Ho pensato di scriverti e di proporti di preparare ognuna qualcosa di buono, una ricetta della nostra terra che, solitamente, non prepariamo.
Pensavo che mi sarebbe piaciuto mangiare con te e parlarti, raccontarti delle mie sensazioni e ascoltare le tue. E potremmo sempre farlo anche a distanza, perché no? In barba a questo evento, noi saremo piene di fantasia e ognuno potrà descrivere il proprio piatto che sicuramente un giorno ci scambieremo davvero. Pulire tre kg di cipolle richiede un po’ di tempo e così la mente vaga. Ed è per questo che ti ho pensata. E penso, penso alle sensazioni che ho e delle quali vorrei farti partecipe.
Penso ad alcune cose errate della nostra moderna società. Almeno quelle che ritengo errate. I modi di fare, di comunicare. Quello che ci ha quasi convinti che più si urla e più si ha ragione, che più si corre e si schiaccia l’altro e più si ottiene. Credo che sedute insieme ci fermeremmo a riflettere sulle nostre differenze sociali, su come ci cataloghiamo, ci calpestiamo. E adesso, con la nube, sembra quasi che qualcosa di più grande abbia deciso che basta! E colpisce, tutti, senza distinzione. Sembra come nel naufragio del Titanic, nessuno è immune dall’affogare.
Bene cara, dimmi se ti va di preparare qualcosa. Un dolce magari, tipo quella torta alla frutta che ho assaggiato da te l’ultima volta che ci siamo viste, ricordi? Mmm… buonissima. Quante risa in quell’occasione, quanto abbiamo parlato e come mi hai stretta forte quando ti ho salutata. Beh, lo sapevamo che non ci saremmo riviste presto, ma avresti mai immaginato tutto ciò? A volte la cosa mi scoraggia, è dura e…. Ma ci riusciremo a venirne fuori. Parleremo di te, dei tuoi progetti rimandati. Ma fa nulla, adesso la nube ha il pregio di far sembrare tutto sopportabile, perché… la salute prima di tutto.
Poi, certamente io farei un cenno a ciò che ci circonda, ai cambiamenti… mi sembra di vederti mentre scuoti la testa e sgrani gli occhi. “Ma ti sei resa conto“, ti direi, che non si riesce quasi a capire se è iniziata una nuova settimana. In alcune case il ticchettio di vecchi orologi è quasi ridondante. In altre ci sta un silenzio assoluto e le persone vanno dal divano alla cucina. Io che sono melodrammatica ti reciterei il mio pensiero, così come amo fare.
Sai che mi piace esprimere i miei pensieri in versi, sai che sono un po’ prolissa e, come dice mio figlio, parlo come scrivo. Sì, perché io te lo direi anche a voce proprio così come lo sto scrivendo: “Finirà, tutto ha una fine e tutto finirà”. L’immobile sostare sarà stata prova per tutti. Molti avranno nutrito in meglio la propria anima. L’essenza senza veli sarà esplosa. Il meglio o il peggio avranno arricchito o impoverito il sé.
Il tempo, tempo ci avrà dato. E così, immense e nuove, per chi lo avrà desiderato, saranno state conoscenze, un nuovo sapere. Tante le tradizioni ricercate e riviste, tante saranno state quelle dimenticate, ritrovate e assaporate. Le pietanze del nostro passato, delle nostre tradizioni. Si saranno riscoperti talenti. Tutto si sarà notato, tutto sarà emerso o sommerso. Posti, luoghi, colori avranno viaggiato nell’etere e saranno approdati in numerosi display. Loro sì, in giro per il mondo. Da un palmo della mano all’altro, in posti vicini e in posti lontani. Attraverso gli stessi display, amati volti in sguardi carezzevoli avranno colloquiato, sorriso e pianto.
Canzoni inneggianti ai nostri colori, ai nostri valori, si saranno ascoltate mentre il cielo lo si sarà osservato da finestre e balconi. Qualcuno avrà riscoperto il piacere dello stare insieme. Qualcuno solo, in terre lontane, avrà a volte amato in modo struggente la propria madre terra e a volte si sarà sentito il di lei orfano, e per attimi lacrime e rabbia le avrà dedicato. Anche i solitari che avranno a cuor sereno accettato quelle giornate strane, poi, dopo una, due… tante avranno finito col piangere. In quella nella stessa solitudine che, con coraggio, con musica, libri, internet, avranno riempito.
Qualcuno la calma avrà perso e qualcun altro avrà compreso. Qualcuno sarà peggiorato e, come accadeva nelle antiche guerre, nulla avrà imparato. Molti avranno i loro cari da lontano e, per sempre, salutato. Saranno stati forse i più piegati da questo immobilismo al quale una nube invisibile e bellica ci avrà obbligati. Tutto passa, passerà.
E allora, mascherine non carnevalesche al vento gettate saranno, volti di guerrieri essi, non immobili, emaciati e stanchi a sorridere, increduli riprenderanno. Sguardi indugeranno, occhi negli occhi, e passi, l’uno incontro all’altro per attimi ancora, timorosi e fermi, resteranno. Gli abbracci virtuali o solo mimati nel solitario dondolio delle proprie braccia a cerchio, cominceranno a essere di nuovo e piano, caldi, veri. In essi vibranti battiti di cuore e sospiri di pace, finalmente, forti si udiranno.
Ciglia d’occhi strizzeranno tra loro a trattenere lacrime che, finalmente, di gioia saranno. Sembrerà assurdo eppure l’immobilismo come uragano sarà stato. Avrà divelto, sconvolto, cambiato tutto ciò che avrà attraversato e con sé tutto avrà trascinato. Dopo di lui, nella quiete, l’abbraccio. Nulla e nessuno tornerà come prima, no. Tutto sarà immancabilmente cambiato, rinnovato e chi lo sa, forse, migliorato. Tutto ha una fine. Finirà. E noi, ci rivedremo davvero.
Oh mamma mia, scusa cara, devo soffiarmi il naso e asciugarmi gli occhi perché sai, pulire le cipolle è la cosa più tragica della preparazione della focaccia di San Giuseppe. Mentre le pulisci e le tagli gli occhi piangono… Eh sì, sono le cipolle a farmi piangere, io sono forte e forza voglio trasmetterti, sì. Prepariamo le nostre pietanze e aspetto un tuo cenno per confrontarci. Ti aspetto cara, non tardare.
A dopo. La tua Maria.
Maria Calendano
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28 Marzo 2020
Ironico tutto ciò. Un tocco di mano e diventiamo noi la minaccia per le nostre stesse famiglie, un pericolo per i nonni anziani, per le persone malate e anche per noi stessi. Questo è il potere dell’armata invisibile, che si muove nell’aria, per le strade, silenziosa, mimetica e a dirla breve, invisibile.
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La sua marcia fece tremare la terra, dalla Cina fino a scuotere le fondamenta del quotidiano italiano, e a poco a poco quasi quelle dell’intero mondo. Eppure, con la mancanza di un antidoto che uccide questo soldato invisibile, un anticorpo si forma comunque, quello che nasce nel laboratorio della nostra resilienza. Messo a dura prova, battuto come ferro caldo da un decreto all’altro. Eppure, il quotidiano non diventa una prigionia, bensì un luogo di riparo e anche una trincea contro il virus.
Un luogo che ora rappresenta anche uno spazio mentale. Un luogo che va rivestito di sana pazienza. E così guadagneremo un’immunità della quale potremo usufruire in altre situazioni difficili della vita, dove covid-19 non sarà altro che una scritta su un vecchio giornale.
Quale gioia, invece, sapere che le nostre singole vite si possono sincronizzare, nel bene e nel male, e dare vita ad una coreografia sociale positiva e costruttiva? Ci sentiamo più mortali, più rivolti verso il noi che l’Io, che con qualche briciola di egoismo piange la libertà fuori dalla porta di casa. Ebbene, se si vuole riavere quest’ultima bisogna armarsi di pazienza, di flessibilità e di voglia di apprezzare di più il minimalismo che si rifugia nella domesticità. Endorfina a chilometro zero.
Martin
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27 Marzo 2020
Care amiche come va? Mi mancate sapete!? Ma soprattutto, come state vivendo questo periodo così difficile?
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Io sto cercando di non mollare, ma è dura. L’isolamento che sto vivendo, mi fa sentire sempre più sola, ma non in senso “fisico”, ossia non deriva dal fatto di non avere nessuno intorno, bensì in senso “interiore”. E più volgo lo sguardo dentro di me, più ne ho paura e il senso di solitudine aumenta.
Per tutti coloro che hanno una patologia come la mia, (voi sapete bene a cosa mi riferisco) tale sensazione viene amplificata e sommersa dai pensieri più profondi del nostro inconscio, inerenti la percezione e le credenze che si hanno su di sé.
Tali credenze, se negative e automatizzate nel tempo, sono dure da scacciar via. Ma con la mia lettera non voglio sconfortarvi, anzi voglio “mostrarvi” ciò che di positivo questa quarantena mi sta offrendo!
Trovarsi soli con il proprio SÉ non è mai facile per nessuno, ma credo fortemente che si possa trarre vantaggio da una situazione simile.
Io, ad esempio, sto imparando ad essere più compassionevole con me stessa. Lavorando instancabilmente su ciò che sono, cerco, giorno dopo giorno, di rimanere nelle mie emozioni, senza timore di ascoltarle, poiché esse mi stanno comunicando qualcosa. Qualcosa che ho bisogno di ascoltare, altrimenti queste, se represse, continueranno ad ostruire il mio cuore e col passare del tempo si ripresenteranno con più forza, creando danni maggiori al mio Essere.
Ho compreso che la solitudine non è vivere da soli, ma il non essere capaci di farci compagnia o di ascoltare quel che è dentro ognuno di noi.
Purtroppo nella società di oggi la solitudine non viene vista come un vantaggio per scoprire sé stessi, bensì come un demone da sconfiggere. In questo modo non si riesce più a vedere il buono che ha da offrirci; anzi, si cerca sempre di rifuggire da essa, cercando di riempire il più possibile le nostre giornate pur di non guardarci dentro.
Per concludere desidero lasciarvi con una frase di Nietzsche, per me molto significativa:
“Odio quelli che mi tolgono la solitudine, senza farmi compagnia”
Cosa ne pensate? E qual è la vostra personale sfida in questo momento? So che non sarà facile tradurre le emozioni in parole, ma credo nell’espressione scritta e orale dei propri vissuti/sentimenti, perché facilita la comprensione. La condivisione poi aiuta ad unire le persone e a farle sentire meno sole, poiché si sa, l’unione fa la forza e solo così possiamo sconfiggere la sofferenza di oggi per un domani migliore!
A presto dolci amiche!
Con affetto M 2
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26 Marzo 2020
Leggi di piùCaro amico ti scrivo,
cosí mi distraggo un pó.
E siccome sei molto lontano
Piú forte ti scriveró…
Mi piace iniziare questa lettera con “L’anno che verrá” di Lucio Dalla. Primo per incoraggiarmi, secondo perché è un testo molto attinente al momento e terzo perché spero che qualcuno abbia iniziato a leggerlo canticchiando.
Ricevere il tuo messaggio su Whatsapp è stata per me come una doccia fredda. Lo riporto qui: “Scusa se non ti ho piú chiamato in questi giorni, ma ho la febbre da settimana scorsa e mi sento una pera cotta. Questo mostriciattolo invisibile è venuto a farmi visita. Vivo con mio marito separata in casa”. E aggiunge un’ Emoticon con la faccina che strizza l’occhio.
Le chiedo: “hai paura?” Abbastanza, risponde lei. Per fortuna non ho problemi respiratori e mi sembra che mi stia riprendendo. Anche se non oso dirlo forte (come si suol dire).
È bello il legame d’amicizia che abbiamo, anche se non gliel’ho mai detto apertamente e non l’ho mai messo nero su bianco. C’è e basta. Un legame che dura da molti anni, che ci riporta ai tempi delle medie. Non è che siamo così vecchie, ma “giovinette” non ci possiamo neanche definire.
Sono tempi duri, la tristezza ci avvolge, le lacrime ci rigano il viso, ma dobbiamo attaccarci a quel filo di speranza. Che, per me, resta una preghiera recitata per tutti, alla sera, prima di addormentarmi. Mi dà la sensazione di riposare un po’ più serena.
Concludo il messaggio con la mia cara amica dicendole di tenermi aggiornata e le mando un video divertente per sdrammatizzare. È bello terminare la nostra conversazione, via Whatsapp, con una faccina che ride.
Cristina
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25 Marzo 2020
Come ogni sera mi ritrovo seduta da sola sul divano, con un telefilm poliziesco alla tv, la pattuglia dai lampeggianti blu accesi che fa la ronda per controllare che nessuno sia in giro, tantissimi progetti iniziati e mai completati…ma i pensieri da tutt’altra parte.
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È passato ormai un mese da quando, sulle note felici del Carnevale, i bimbi hanno salutato le maestre con la promessa di divertirsi e rincontrarsi più leggeri che mai la settimana successiva. Le verifiche erano già programmate, la tanto attesa gita si avvicinava sempre più, così come la festa per la Giornata Internazionale della Donna, la festa del papà, la festa per l’inizio della primavera.
Ma quella settimana non è mai arrivata: siamo entrati in guerra e all’inizio nessuno l’ha voluto riconoscere, né ammettere a se stesso. Abbiamo cominciato con un “Non è che una forma di influenza un po’ più seria”, “passerà velocemente, l’importante è riguardarsi”, siamo passati ad additare i cinesi, fin quando la psicosi si è definitivamente impadronita delle menti, “#iorestoacasa”, “#tuttoandràbene”, arcobaleni colorati, pasta fatta in casa, pulizie che rimandavamo da una vita…
E la gente che continua a morire in sottofondo, come una stonata melodia lontana, che non cessa mai di risuonare nelle nostre menti, ma alla quale piano piano il nostro orecchio si sta forzatamente abituando. Io per prima non vedevo l’ora di avere una settimana di stacco…quante volte me lo sono ripetuta da inizio anno: non stavo più dietro a tutti gli impegni, mi sentivo sempre come se stessi rincorrendo il tempo, inutilmente. Ero in affanno ma senza correre, indecisa, senza opzioni tra cui scegliere, in ansia benché senza grandi impegni…le cose non stavano funzionando al meglio.
Così ci speravo, ci speravo davvero in quel momento di riposo per tornare a far pace con i miei pensieri, per riorganizzarli come si fa con il materiale scolastico alla fine delle vacanze, per dar loro le giuste priorità, affinché continuassi ad essere produttiva, efficiente, presente per tutti, ma allo stesso tempo non mi dimenticassi di me. E poi la pausa è arrivata, ci siamo stati catapultati tutti dentro; devo dire che non è stato male, all’inizio.
Finalmente quel po’ di tempo in più per tornare a respirare, per parlare a se stessi, ritrovarsi e fare il punto della situazione! È bastato poco, tuttavia, per far precipitare le cose, per trasformare il tempo libero in un senza-tempo scandito da bollettini di guerra, decreti notturni alla popolazione e scene di panico diffuso. È bastato poco per poter uscire di casa solo con una giustificazione, per non riuscire a fare la spesa con la giusta serenità, per iniziare a sospettare delle persone a cui vuoi bene.
Perché ora è così: bardati con mascherine soffocanti, guanti scivolosi, vaghiamo tipo Speedy Gonzales tra le corsie di un negozietto di paese, cercando di evitare il contatto con gli altri, cercando di evitare di incrociare il loro sguardo, cercando di evitare di parlare, tossire, sospirare. “Un metro di distanza dalle carote, un metro e mezzo dai cetrioli e una galassia e tre quarti dalle persone […] quando ho avuto i soldi in mano sono fuggita, mai così veloce, cercando di capire i nuovi sensi unici e i divieti d’accesso alle corsie del supermercato. Una volta uscita ho respirato come mai prima, aria fresca, aria di salvezza.
E ora sono in macchina, con i finestrini abbassati per recuperare ossigeno, perché ancora mi sto riprendendo dagli sguardi sospettosi e inquisitori della gente e dai fumetti che leggevo sopra le loro teste, confusi, impauriti, persi”; così descrivevo l’ultima esperienza in negozio ad un’Anima a me cara, la stessa che mi ha regalato l’espressione del ‘senza-tempo’, che sempre più utilizzo in queste giornate insensate.
Dobbiamo reimparare a vivere i giorni nella loro interezza, ad assaporare ogni ticchettio di orologio, cercando la voglia di andare avanti. Perché ora come ora, quando ti arriva la notizia di persone decedute, siano queste anche degli sconosciuti o dei vaghi conoscenti, una morsa ti prende lo stomaco e ti viene quasi voglia di sdraiarti sul letto, dimenticare il presente, lasciare che il mondo vada avanti senza di te.
Sono a casa 24/7 con una bimba di sette anni. Una bimba spaventata, che chiede costantemente cosa la Coronavirus significhi, cosa comporti, chi stia morendo, cosa succederà qui, a noi, in futuro. Beata piccola, ancora non ha capito che “è già qui”, che “è già con noi”, che “è ora”. Perché siamo tutti insieme in questa ridicola, terribile catastrofe. La piccola mi chiede delle sue care maestre, quando potrà vederle ancora per correre insieme nel giardino della scuola, se potrà consegnare loro il lavoretto di Pasqua che stiamo preparando, se faranno la verifica di inglese per la quale da un mese si sta preparando. Non chiede molto dei compagni, forse è tranquilla perché tanto al TG non fanno che dire che muoiono solo ‘Vecchi. Adulti.”; forse i nostri piccoli angeli sono ancora capaci di stare in contatto l’uno con l’altro anche a distanza, perché sono empatici, sanno cosa provano gli amici, sanno come stanno affrontando il momento. Noi adulti ci troviamo invece in difficoltà: stiamo iniziando a dimenticare il calore degli abbracci (io che non ne ho mai voluti e tantomeno dati, ora immagino il momento in cui potrò rivedere alcune persone speciali, per avvolgerle con lo sguardo, abbracciarle con le mie parole, scaldarle con un sorriso), iniziamo a rivalutare ogni momento dato per scontato fino al mese scorso, gli incontri rimandati, le chiamate silenziate, le occasioni perse.
La distanza forzata comporta anche questo, una riflessione su ciò che è stato, gli errori commessi, le potenziali svolte future. Ogni giorno devo inventarmi attività per occupare il tempo, devo diventare – senza esserlo davvero – maestra, mamma, cuoca, animatrice, allenatrice, compagna di classe, poliziotta, parrucchiera, donna delle pulizie; devo pensare a cosa leggere insieme, quale dettato fare, che tabellina studiare e che esperimento provare; devo tranquillizzare questa piccola Anima senza minimizzare troppo, devo spiegare senza creare pregiudizi – perché già ci pensa la televisione ad attaccare e trovare capri espiatori ogni giorno – che la situazione è grave ma ne usciremo. La gente muore ma stiamo cercando una cura, siamo chiuse in casa ma il sole splende e fa crescere le prime margherite e violette che, per una volta, non saranno subito calpestate e potranno abbellire un po’ il quadro che vediamo dalla finestra. Cuciniamo insieme per imparare la (eco)sostenibilità, guardiamo nuovi film per fingere di essere al cinema, dipingiamo per affinare la manualità in modo divertente, riordiniamo per prenderci cura di noi stesse – perché l’ordine esteriore si rifletterà in un ordine più sottile, interiore, di sentimenti e idee…e ora ce n’è davvero tanto bisogno.
Poi litighiamo, ci scontriamo, ci arrabbiamo, perché come sardine in scatola siamo costrette a condividere un piccolo spazio, perché la convivenza non è facile, perché ognuno vive bene nella propria quotidianità solo grazie alla possibilità di ritagliarsi degli spazi ‘per sé’, che vanno poi a bilanciare e riequilibrare la vita familiare. E così è questa la mia preoccupazione: da un lato l’istruzione, che ne risentirà senza dubbio soprattutto ai più bassi livelli di scuola, dall’altro lato lo sviluppo di un’intelligenza emotiva, l’espressione di emozioni, preoccupazioni e idee, l’esorcizzazione ‘del mostro’ per non creare una fobia ma lasciare solo un’importante lezione di vita. E allora ecco che, forse, questo senza-tempo monotematico non è poi così insensato. Mi dico, mi dicono, che deve servire ad altro.
La primavera che sboccia “scalda – scrivo sempre a quella Cara persona – prova a scongelare gli animi ancora intorpiditi, metabolismi bloccati in sculture di ghiaccio, pensieri incupiti. Ci mostra la via verso la nuova luce, da guardare con riconoscenza e speranza, per avere un nuovo atteggiamento da mostrare al mondo quando la guerra sarà finita.
E sconfiggere il virus sarà aver vinto una battaglia, quel che determinerà se la guerra sarà vinta o persa, sarà ciò che rimane in e attorno a noi. Cosa avremo imparato, come ci saremo evoluti, su cosa decideremo di concentrarci, se sul nettare della vita o sulla polvere che lo nasconde”. Il momento va sfruttato, con i bambini così come con gli adulti, per portare un diverso insegnamento, per far riflettere e lasciare che ognuno trovi il modo di ‘tirarsi fuori’. Ora, che siamo in una fase di transizione tra un prima e un dopo diversi tra loro, imparare ad esprimersi, a concretizzare la propria sensibilità, imparare ad amare, a lavorare per la collettività è di vitale importanza.
Perché torneremo a vivere, torneremo ad avere una routine diversa da quella di letto-frigo-compiti-divano-cartoni, inizieremo a ricostruire una normalità con nuovi princìpi e nuovi valori e sarà allora che si vedranno i frutti di questa guerra, quali fiori sbocceranno. Verrà poi il momento di fare i conti con la politica, con l’Europa, con le persone che ci hanno abbandonato, con quelle riscoperte e i nuovi arrivi. Verrà il momento di fare un nuovo bilancio delle aspettative, togliere qualche impegno e dedicare qualche caffè in più agli amici o – se non si può – dedicare loro un saluto, una buona notte inaspettata, un pensiero sincero.
Verrà infine il momento, in cui tutto questo sarà passato, ma avremo imparato a guardarci dentro e allora saremo più forti, osserveremo le cicatrici nell’Anima e sapremo cosa fare, riconsidereremo le nostre paure. In fondo i delfini sono tornati, le acque si stanno ripulendo, le lepri invadono i parchi pubblici, lo smog si dissolve, la terra si riappropria della propria salute, con forza, per sopravvivere. E da qui in poi dovremo imparare a fare lo stesso: perseguendo ciò che ci fa stare bene, che ci fa andare avanti, aggrappandoci alle speranze, sorridendo alla vita e combattendo per migliorare tutto il possibile, in noi e fuori.
Lucrezia
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25 Marzo 2020
Ciao pulce, ciao amore, cuore verde sempre.
Passare la notte a guardare le stelle, scoprire nuovi mondi, esplorare e viaggiare nel tempo senza tempo e poi ritrovarsi li, sempre, a casa.
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Dove è la tua casa? La mia è dove sta il mio cuore. E la tua casa dove sta?
Ci troviamo per bere un caffè? Buona idea, facciamo da me o da te? Facciamo da noi. Bella idea, ci sto. Occhi e sguardi, sospiri e parole non dette, battute e battiti, mi manchi o forse mi sei sempre mancato di quella nostalgia che ti porta via. Dove sei? Qui, con te. Quando ci vedremo ti spiego di persona.
Ecco l’hai detto…uff…e adesso te lo chiedo, ma quando ci vedremo? Non lo so, ho un rapporto conflittuale con i verbi d’ azione. Dire, fare, baciare, scegline uno e quello sarà. Promesso.
Ci siamo ri-conosciuti in un momento dove poteva solo andare così, ci sei? ci sarai? Non importa se adesso o prima, un cuore verde rimane per sempre. Come la luce delle stelle che illumina il cielo ogni notte. Però una cosa te la voglio promettere. Finito tutto ci ritroveremo, ci ubriacheremo al Brennero appena varcato il confine, e andremo in spiaggia a guardare le stelle, ad ascoltare il rumore del mare e a fare l’amore.
Ti ringrazio per tante cose, ti ringrazio di avermi permesso di ri-conoscermi.
A presto, mi manchi. Tua M.
Michela
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24 Marzo 2020
Caro amico mio,
sono passati circa vent’anni dall’ultima volta che ci siamo abbracciati.
Poi quel triste addio. Sapevamo entrambi che non ci saremmo più incontrati. Io sono cambiata, ma questo tu già lo sapevi. Tu?
Tu se vivi da qualche parte, prendi fiato e ascoltami. Ti racconto la mia vita, da qualche tempo cambiata, diversa. È un momento molto difficile per me e per tutta l’umanità. Sai, un nemico invisibile ha colonizzato l’intero pianeta.
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Un nemico molto pericoloso che colpisce e ferisce l’essere umano. Per questo motivo, siamo tutti obbligati a rimanere a casa. Dobbiamo difenderci e costringerlo a sparire. Nel frattempo non posso uscire, tranne che per andare a comprare gli alimenti dal minmarket all’angolo e poi rientrare. Ed è proprio varcando la porta della mia abitazione che si consuma il dramma. La città è deserta e le poche persone che incontro indossano una mascherina e dei guanti in lattice. Le strade sono completamente vuote, buie, nonostante i raggi del sole primaverile. Le macchine ferme. Allineate ai margini dell’asfalto.
Mi sono chiesta che senso abbia tingersi ancora le labbra di rosso, se nessuno può guardarle, baciarle, assaporarle. Cammino, e gli unici sprazzi di gioia sono affissi sulle ringhiere dei balconi, sono i messaggi dei più piccoli “ andrà tutto bene”, colorati su semplici cartoni bianchi e abbelliti con un fascio arcobaleno. Accenno un sorriso, ma nessuno può notarlo perché una sciarpa avvolge per ben due volte il mio collo, ammantandomi naso e bocca. Seppur abituata al cambiamento, questo davvero non lo sopporto. Mi fa male, tanto male.
Ho persino fermato il suono del pendolo. Non c’è più tempo da misurare, tutto scorre senza minuti. Le ore non passano e le giornate sembrano identiche e infinite. Le mie giornate?
Scrivo la mia vita nei giorni che diventeranno storia per il futuro. È tutto sottosopra.
Il caffè non mi tiene più sveglia, mi addormenta.
Bevo una tisana prima di andare a letto e dopo aver trattato il mio viso con una maschera al caviale.
Ascolto la musica, quella bella, leggo, prego e ripercorro il mio passato.
Sono sola. Vivo sola.
Mi prendo cura della mia anima, parlo con lei.
Le dico che dovremmo reinventarci ancora una volta e che dovremmo cominciare a farlo subito. Quelle giornate colme d’impegni e ricche d’incontri si sono ridotte tra sedia e divano, si sono spente, precipitando in un silenzio tombale. Dove sono finite? Quando ricominceranno? Chissà!
La mia vita è così diversa, stravolta.
La vita di tutti è cambiata.
È come se un’onda gigantesca avesse travolto l’intero universo e in un solo istante avesse inghiottito tutto, senza lasciare alcuna traccia. Trascorro molto tempo a esplorare il mistero dell’esistenza e comincio a riflettere sul vero senso della vita. Sono orgogliosa di essere una donna coraggiosa e minimalista. Oggi più di ieri mi rendo conto di quanto sia importante anteporre l’essenziale al superfluo, a quello che comunemente si usa definire “il di più”.
E mentre si consuma l’emergenza, io sono qui nella mia casa modesta che mi guardo, mi compiaccio e apprezzo il mio parsimonioso stile di vita. Amico, da sempre, discusso da molti.
In questo grande spazio di tempo, vuoto e silente, ho imparato a comprendere la forza dell’imprevisto, che è lì dietro le spalle. Ci osserva e come uno tsunami arriva violento e sorprende tutti: ricchi, poveri, imprenditori, operai, stranieri, eterosessuali, transgender, senza alcuna distinzione. Arginando così quel divario sociale edificato dall’uomo.
L’uguaglianza ha insabbiato la differenza.
Le proprie case sono i luoghi comuni di tutti, e le strade, i non luoghi, sono libere arterie senza traffico. Gli aerei volano solo per trasportare gli angeli della medicina provenienti da ogni parte del mondo, dalla Cina, da Cuba… per supportare i medici italiani e i malati di Covid-19.
Sono loro i portatori di speranza e solidarietà. Nessun aereo può ospitare i famosi diretti alle maldive per vacanza e relax. È davvero tutto fermo. E a battere è solo il cuore.
Il cuore di chi ha coltivato amore e filantropia. Di chi ha sofferto e imparato dal dolore. Di chi ha perdonato senza condannare e ascoltato prima di giudicare. Ecco, sono le ore diciotto e come ogni giorno, sono davanti alla tv per seguire gli ultimi aggiornamenti dei numeri sulla situazione epidemica in Italia. Sono più di 600 i decessi oggi. Sono davvero tanti, ma non è più una questione di numeri, anche se fossero stati pochi, il dolore è tanto.
Bisogna avere pazienza, me lo dico ripetutamente. Sono sempre stata affascinata dal sacrificio e abituata a viverlo come mistico percorso per raggiungere la serenità.
È già primavera, e tu sai benissimo quanto sono innamorata di questa stagione. La stagione del risveglio, del profumo dei fiori e dei pomeriggi lunghi e soleggiati. Mi son sempre sentita più libera e rinata in questo periodo. Oggi la guardo dall’alto della mia casa, nostalgica e senza fiato. Questa volta sto contando i giorni che mi separano dalla sua fine, solo perché spero che quel giorno sarà tutto finito.
Mi manca la libertà.
Mi mancano gli abbracci giornalieri.
Mi mancano i miei amici e le serate in disco.
Mi mancano i baci e le strette di mano.
Mi manca la mia amata Bari colma di gente, e i miei viaggi in giro per l’Italia.
Mi manca tantissimo Berlino, magnetica, suprema nel suo genere.
Mi manca tutto!
La forza di oggi è aver scoperto la presenza costante, se pur virtuale, telefonica, delle persone a me care. Gli amici che mi sostengono in questo istante sono il mio ossigeno.
E poi ci sono i miei genitori ai quali con piacere regalo la mia presenza a pranzo. Passare più tempo con loro, potermi dedicare al loro benessere, proteggerli da questo male mi rende una persona migliore. Sono molto contenta di affiancarli e tutelarli. Non so cosa mi aspetterà domani quando tutto sarà finito. Penso a come sarà difficile, per una come me da sempre in balia del vento, ricominciare dopo questo dramma. Il governo parla di esoneri, garantisce aiuti e contributi a favore dei lavoratori. Ancora una volta mi sento sola, esclusa e in tutto questo io non c’entro.
Se pur pronta a ripartire con la mia valigia in giro per l’Italia, so bene che questo non sarà possibile per i tanti mesi futuri. Mi chiedo che ne sarà di me, vedo la fine di questa brutta storia, come un inizio incerto e ripido. Mi capita spesso di piangere.
Spariranno le lacrime, ma rimarranno nella memoria dei miei occhi per sempre.
Ah, dimenticavo…
Se dovessi dare un nome, oggi, a questo periodo, lo chiamerei “prigione”, proprio con lo stesso nome col quale chiamavo te (corpo), circa vent’anni fa!
Perché sono… Un Angelo Legato a un Palo.
Alessia
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23 Marzo 2020
Cara Lara,
come stai? Potresti essere anche oltremare, così lontana come mi sembri attualmente, ma anche così vicina. E ti penso sempre. Come possiamo vivere ancora in questo mondo, nel quale ogni giorno muoiono centinaia di persone?
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Mi ricordo, il giorno dopo la morte di mia madre, come cantavano i merli e io ero turbato. Come potevano cantare, quando il mondo avrebbe dovuto fermarsi a causa del mio dolore? Come potevano osare cinguettare e cantare, mentre per me crollava il mondo?
A volte mi sorprendo a pensare e mi chiedo: ti ricordi di quando ti ho raccontato del romanzo “La guerra dei mondi” di H. G. Wells e dell’adattamento radiofonico del 1938? La trama riguarda la conquista del nostro pianeta a causa di un’invasione da Marte. L’adattamento radiofonico scatenò il panico. Gli ascoltatori però non vedevano né un marziano né dei dischi volanti. Eppure, il tono drammatico della trasmissione, oltre al fatto che in quel momento la radio fosse l’unica fonte d’informazione a disposizione, scatenò un’isteria di massa. La trasmissione sembrava un vero e proprio radiogiornale. A questo proposito abbiamo anche parlato dell’opera di Le Bon, “Psicologia delle folle”.
Mi chiedo, dunque, cosa succederebbe se anche noi stessimo assistendo a un adattamento televisivo, resi isterici dalla tv statale, unica fonte d’informazione, dalla quale tutte le altre (giornali, social media) copiano, creando così una catena di Sant’Antonio, sempre più accelerata, la quale ci fa credere a una catastrofe che non c’è? Non ho ancora visto dei morti di Covid-19, non ho visitato un ospedale, vedo solo le immagini che passano sullo schermo televisivo. Ma mi rendo subito conto, naturalmente, che questa idea è una fantasticheria, dettata dalla terribilità sconvolgente degli avvenimenti.
Sono seduto qui alla scrivania e sto scrivendo queste righe già per la terza volta. In sottofondo vedo le immagini scioccanti di Bergamo, dove soldati con mezzi militari trasportano in colonne interminabili i feretri con i morti, accompagnati da “Il Silenzio” o da “L’Inno di Mameli”. E ogni tono, ogni nota, produce nuove lacrime. Scendono sulle guance, in rigagnoli caldi e amari, ininterrottamente gocciolano sulla carta, l’ammollano e mi costringono a ricominciare da capo.
Avremo noi due, come Renzo e Lucia, la fortuna di rivederci dopo la peste? Ne dubito. Sono seduto qui e ascolto la musica di Anton Bruckner, quasi una musica dedicata a Werther, direi.
Sul tavolo, le opere di Nietzsche. Tutto il mondo è grigio e triste. Allora questo è stato tutto? Tutta la vita? Sentiamo già gli zoccoli dei cavalli dei Cavalieri dell’Apocalisse? E di nuovo mi scendono le lacrime – di nuovo in tv hanno intonato l’Inno. Mi strazia il cuore!
Strano, un raggio di sole penetra la cappa di nubi, guarda attraverso la finestra e gioca con i suoi riflessi sulla superficie della mia scrivania.
E sento oltre la musica triste una vocetta di bambino: “Ma io voglio giocare e io giocherò!”. Che vocina risoluta! Mi alzo, vado alla finestra e cerco quel piccolo ribelle. È una bambina di circa quattro anni, la quale, gridando e ridendo corre sul prato a braccia aperte.
Hm, un raggio di sole, un riso felice e una piccola bambina. Mi asciugo le lacrime: Dai, coraggio, Lara, possiamo ancora sperare!!
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22 Marzo 2020
Cari compagni di quarantena,
so che sembra una frase di circostanza e ammetto di averla usata così anche io qualche volta ma voglio innanzitutto dirvi che spero davvero stiate tutti bene.
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Come forse qualcuno di voi ricorderà, specialmente tra gli amici e la famiglia, in questo spazio ho spesso avuto l’occasione ed il grande piacere di condividere alcune riflessioni sulla situazione della nostra Terra, della nostra casa. E forse è proprio per questo che, quando mi è stato proposto di scrivere un pensiero da condividere qui, l’istinto mi ha subito portata ad una nuova riflessione proprio su questo: la casa.
In questi giorni penso costantemente alla mia casa, un po’ perché siamo tutti confinati nelle nostre case e un po’ perché credo che nei momenti difficili ed incerti come quello che stiamo vivendo, molti, o almeno i più fortunati, possano cercare la stabilità perduta e il supporto necessario prima di tutto nell’affetto della propria famiglia e nel senso di sicurezza che ci trasmette la casa.
Quando penso a quella sensazione così confortante, mi ritrovo, anche se solo con il pensiero, in quella che io identifico come la mia vera casa anche se ormai è molto lontana nel tempo e nello spazio da quella in cui vi scrivo queste parole. Chiunque mi abbia mai incontrata sa perfettamente che questa casa è in un piccolo paesino della Calabria, un borgo della provincia di Cosenza che sorge tra la costa jonica della piana di Sibari e le pendici della Sila Greca. Un posto con una storia molto particolare, diversa da quella dei comuni vicini, una storia che lo rende una sorta di isola in cui si parla una lingua diversa, antica, e in cui tutti si conoscono e vivono come una grande famiglia, arrivati insieme dall’altro lato del mare e ormai tutti imparentati da più di cinquecento anni. Questo posto è per me il calore, la stabilità, il conforto e la sicurezza di casa.
In questo momento di pericolo, il mio sguardo va prima di tutto verso casa, e quando succede non posso fare a meno di rendermi conto, con grande sgomento, che questa casa non può offrire nessun riparo a chi ci è rimasto, ai miei parenti anziani, ai miei cugini, ai miei amici… e quella casa che da un lato dà il conforto di cui tutti abbiamo bisogno in un momento come questo, dall’altro minaccia di trasformarsi all’improvviso in una trappola senza via di scampo.
Quella casa, infatti, si trova ad almeno un’ora di viaggio, di curve, di strade strette e poco illuminate dall’ospedale più vicino, un ospedale di paese assolutamente impreparato a far fronte all’emergenza. “Qui siamo sempre in emergenza” dice un medico calabrese in televisione. Abbiamo circa 110 posti letto in terapia intensiva per tutta la regione e quasi tutti sono già occupati dalle necessità ordinarie. Abbiamo 60 medici in quarantena senza i quali settantamila persone sono lasciate sole, senza un punto di riferimento in una situazione così drammatica.
Sono dati, dichiarazioni, numeri, informazioni nel fiume di tutte le informazioni da cui siamo travolti in questi giorni, ma per me significano una cosa molto semplice: se un mio parente, magari un parente anziano e fragile, venisse toccato da questa malattia terribile, è molto probabile che non avrebbe nemmeno una vera occasione di lottare. Questo fa paura, mi fa arrabbiare.
In questi giorni la televisione nazionale è sempre accesa. Sento continuamente inviti ufficiali a stare tranquilli, a pensare positivo, a stare sereni e soprattutto a “non fare allarmismi”. Giusto. D’altro canto, leggo le parole perentorie e disperate che arrivano dalla Campania, dalla Puglia e dalla Calabria e che dispongono la quarantena preventiva per chiunque, senza dubbio con scarsissimo senso civico e grave incoscienza, è partito per cercare il conforto di quella casa a cui penso continuamente anche io in questo momento di panico e pericolo. “Non potremmo reggere”, “scendete alla prossima fermata e tornate indietro”, “non ci tradite”.
Noi siamo lontani e ci troviamo in una delle zone più colpite da questa malattia terribile ma non ci viene in mente quasi mai. Siamo a disagio, certo, ma paradossalmente siamo spaventati solo quando istintivamente, pensiamo che vorremmo essere a casa. Abbiamo paura e siamo arrabbiati. Vi confesso, cari compagni di quarantena, che ho dovuto riscrivere questa parte e tagliare riflessioni troppo amare, che in questo momento non gioverebbero a nessuno. Per ora, fortunatamente, la situazione sembra gestibile. Ma forse quando le cose torneranno alla normalità deciderò di recuperare quei pensieri perché non posso proprio accettare che la vita delle persone a me care sia in mano alla fortuna. La paura e le preoccupazioni non ci lasciano mai ma, come ho detto, in questo momento mi rifiuto di diffondere sentimenti di rabbia, che pure è giustificata. Ci sarà tempo.
Nonostante i momenti di panico e la grande amarezza dettata dall’ingestibilità di una situazione così critica nella mia casa, cerco di spostare il mio sguardo. Per farlo, decido di cercare il conforto di casa pensandola in senso più ampio e guardando all’umanità e alla Terra.
Le immagini delle emissioni in Cina e nel Nord Italia mostrano che l’aver limitato le attività industriali e il consumo di combustibili fossili ha restituito un po’ di respiro al nostro pianeta in affanno in un tempo di recupero estremamente breve. Le limitazioni al traffico aereo, stradale e marittimo hanno immediatamente prodotto un grande effetto. Pochi giorni senza la circolazione dei traghetti hanno convinto i delfini ad avvicinarsi maggiormente al porto di Cagliari, li hanno resi più audaci, più tranquilli, inclini al gioco e all’interazione con gli sporadici passanti umani. I canali di Venezia sono limpidi. I cigni. I cervi in Giappone…
Chiaramente questi sono solo effetti temporanei di un cambiamento improvviso e drammatico, ma oggi, adesso, possiamo vedere quello che potrebbe essere e possiamo pensare che le cose non devono andare per forza così. Possiamo lavorare perché il cambiamento sia reale, duraturo e sereno. Ieri leggevo le dichiarazioni di Christopher Jones, un esperto del cambiamento climatico che dal suo ufficio di Berkeley scrive di questa situazione “pull one string here, and it affects everything else” e mi trovo d’accordo.
Spostando il mio sguardo dalla rabbia e dalla paura, mi rendo conto che quello che, ovviamente, ha scatenato il panico in tutti noi potrebbe rivelarsi una presa di coscienza brutale ma con un risvolto positivo. Il ricordo di qualcosa che, presi dalla frenesia delle nostre vite nella società moderna, abbiamo dimenticato e che ora più che mai è urgente ricordare, un insegnamento estremo ma arrivato al momento giusto e che potrebbe rivelarsi prezioso: non siamo onnipotenti, non siamo al comando, la società che abbiamo costruito e che ci sembra incrollabile in ogni suo aspetto in realtà non lo è, basta molto poco per farci perdere completamente e tragicamente il controllo e siamo estremamente fragili. Oggi lo sentiamo nel profondo.
Per quanto lo scenario presente sia tragico, purtroppo non è nulla rispetto a quello a cui potremmo assistere tra non molto se non facciamo tesoro adesso di questa consapevolezza ritrovata. Questo sentimento di impotenza ci paralizza dal terrore, è vero, ma non dobbiamo disperare: dobbiamo, invece, trarne vantaggio per le sfide che verranno. Se spostiamo il nostro sguardo riusciamo ad accettare la paura, ad assorbirla e a ricordarla perché questa stessa paura può diventare la bussola che ci guiderà verso scelte diverse, migliori, lontani dal disastro.
La presa di coscienza della fragilità nostra e del sistema in cui viviamo arriva ad un costo altissimo, incalcolabile e ci ha costretti a fermare tutte le nostre vite con l’immediatezza e la semplicità di uno schiocco di dita ma porta con sé frasi che fino ad un mese fa avremmo considerato, con dispiacere ma realisticamente, pura utopia. “Costi quel che costi”, “le conseguenze economiche arriveranno ma dobbiamo ad ogni costo tutelare i più vulnerabili”.
Nessuno è invulnerabile, nessuno è del tutto autonomo, dipendiamo. Abbiamo bisogno gli uni degli altri e tutti del mondo in cui viviamo. Questo è il grande e spaventoso promemoria che ci troviamo di fronte e, per quanto da un lato sia spaventoso, dall’altro significa anche che non siamo soli nel mondo e non siamo soli nella società umana. In questo momento non stiamo pensando solo a noi stessi e le belle iniziative di solidarietà a cui ho assistito in questi giorni mi scaldano il cuore. Ci prendiamo cura degli altri e le differenze che vedevamo ieri, oggi non sembrano più così rilevanti. Spostando il nostro sguardo comprendiamo che alla fine, in questo terribile scenario di malattia, siamo tutti umani e tutti uguali. Anche questo è un insegnamento che avevamo bisogno di ricordare e che non dobbiamo dimenticare quando, speriamo presto, tutto sarà finito.
In questi giorni difficili e oscuri, mi sforzo quindi di spostare il mio sguardo, di allargarlo. Non dimentico il quadro più ristretto e non potrei nemmeno se lo volessi perché sono spaventata e, oggi più che mai, profondamente arrabbiata per la situazione della mia casa e della mia famiglia, ma se scelgo di fare uno sforzo per fare tesoro di quello che ho visto spostando il mio sguardo anche solo per un momento, il cambiamento improvviso che ha travolto la mia vita e la mia tranquillità negli ultimi giorni viene ripagato da una preziosa speranza. Sia per una maggiore cura e attenzione verso la mia casa in senso stretto, sia per la nostra casa in senso più ampio. Così ritrovo un po’ di quel conforto di casa che in questo momento mi manca così tanto.
Quindi, amico, amica, compagno, compagna di quarantena, queste sono alcune delle riflessioni che ho voluto condividere con te e ho voluto farlo proprio qui per invitarti a spostare il tuo sguardo dalla paura, dalle abitudini sconvolte, dal senso di pericolo, dalla mancanza dei tuoi cari e dei tuoi amici e forse, come nel mio caso, anche dalla rabbia. Se provi a spostare il tuo sguardo per dirigerlo tra tutte le pieghe e le sfumature impreviste di questa faccenda, inizierai a vedere dei risvolti del tutto inaspettati, forse persino l’ipotesi di scenari impossibili e positivi. Del resto, sono anni che nomi importanti della cultura ci invitano a guardare con attenzione, ci parlano di cecità che devono essere superate, ci sussurrano o ci invitano apertamente a prepararci e a fare spazio nella nostra mente per l’irrazionale, l’impossibile. Eduardo Kohn, Richard Powers, Amitav Ghosh e molti altri l’hanno messo in conto da tempo e forse dovremmo provarci tutti: avere fiducia, fare del nostro meglio e stare a vedere lo svolgersi degli eventi con speranza e con gli occhi e la mente bene aperti.
“Pull one string here, and it affects everything else”.
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21 Marzo 2020
Wolfie, amato Wolfie,
Sapessi di quest’oggi!
Imbraccio Carlo, il violino, lo carezzo con grazia ma poca maestria.
Spunta un volto piccino e rugoso alla finestra dalla tenda scostata.
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E’ una nonnina; mai vista in precedenza. Raramente sono a casa di mattina a quest’ora. Cara, mi sorride sdentata e saluta.
Ricambio il saluto e le dedico una scala col violino ma mi esce male. Ruzzolo sulle note. Mi rialzo imbarazzata ma la nonnina non c’è più.
E’ una tiepida mattina soleggiata di marzo e il Bel Paese scalpita.
Sotto lo stivale scricchiolano le pruriginose voglie degli italiani che rivorrebbero la libertà.
T’immagino vicino di casa.
Che faresti tu, o incontrastato re dei pazzi, costretto in casa? Per chi scriveresti le folli note, mio Mozart?
Mi faresti una riverenza e rideresti invitando a ballare la mia ombra, nei giorni di castrazione della libertà.
T’immagino spalancare la finestra, uscire in mutande e declamare il bello di questo giorno. Perché, sebbene da parzialmente galeotti per conservare la salute, che bello è questo giorno!
La senti anche tu la primavera esplodere e danzare con scarpette pastello sulla terra bruna che si sveglia appena?
Succulente e bionde si svegliano le margherite nell’aiuola, stiracchiandosi, immuni al virus.
Ci sono in questo oggi e c’erano anche ieri, Wolfgang, così come bellezza e meraviglia era in ciò che vivevo prima del virus.
Forse sarà per questo che mi sento fortunata, sai?
Amo questo oggi anche da dietro le tende della casa.
Ho delle tende e un nido, un tetto sulla testa ed un balcone dal quale affacciarmi. Sogno che sia tu ad abitarmi davanti deliziandomi con le note che tanto mi appassionano.
Era bella la vita di ieri e lo è anche quella di oggi. Non penso che torneremo come prima perché il prima ha cessato di esistere nel flebile istante in cui scrivo di lui.
Allora, perché precludersi il sapore della gioia che posso provare in questo momento?
Una farfalla sulla margherita.
L’apoteosi del crescendo.
Il sole che bacia la fronte.
Un altro giorno di cuore che batte in pompa magna.
Dare vita a quest’oggi è il mio antidoto per la rinascita; cosa sarà domani lo ignoro, ma godo del sorriso che illumina oggi il mio volto rotondo.
Faccio un caffè e batto leggermente la tazzina contro la finestra che amplifica il calore dei pensieri: un caffè al vetro con Mozart vicino di casa.
Se fossi stata là fuori forse non l’avrei mai vissuto.
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